Non sono solo parole…

di Martina Fuga 

 

Mi sono serviti un paio di giorni di decompressione per trovare la lucidità di ritornare sull’argomento. Il tempo della rabbia è finito, ora voglio essere costruttiva. Quasi mi viene voglia di ringraziare Travaglio per essere inciampato sulle parole, quelle che usa di professione e di solito bene aldilà dei contenuti, condivisibili o meno. A volte riconoscere i propri errori è come riconoscere i propri limiti cosa che le persone con disabilità hanno imparato sulla loro pelle. Se Travaglio conosce davvero delle persone con disabilità dovrebbe averle viste lottare con i loro limiti e imparato qualcosa. Ma forse le conosce, ma non le frequenta. Se non fosse che per me gli uomini si misurano in come sanno dire “Grazie” e chiedere “Scusa”, senza alibi, senza pudori, davvero oggi lo ringrazierei. La nostra mania di onnipotenza, il nostro senso di superiorità soprattutto nei confronti dei più fragili evidentemente non ci permette di chiedere scusa e basta. Dobbiamo spiegare e spesso quando ci giustifichiamo peggioriamo la situazione. Se non fosse per tutto questo, direi grazie a Travaglio, perché ci ha fatto un piccolo favore: la settimana prossima è la giornata nazionale delle persone con sindrome di Down e a dirla tutta non è che i media e la gente più in generale ci filino più di tanto, salvo qualche rara eccezione l’eco delle nostre iniziative ha un raggio limitato. Siamo 40000 in Italia, non abbastanza, facciamo forse più rumore a Marzo quando ci si mette tutto il mondo e ci diamo più voce a vicenda. Il problema è che finché ce la raccontiamo tra noi, la vita delle persone con sindrome di Down e delle loro famiglie non cambia. Ci sdegnamo, ci diamo manforte, ma la realtà non cambia. Facciamo due passi avanti e tre indietro. Travaglio e altri giornalisti improvvisati che cavalcano l’onda dei click in questi giorni fanno in modo che si parli molto di noi e anche se in molti dicono cazzate abbiamo l’occasione di toccare il fondo del barile dell’ignoranza e dei preconcetti e di chiarire le fondamenta della questione e farci sentire da più persone, anche quelle che solitamente ci ignorano o peggio ci compatiscono. È a loro che dobbiamo arrivare.

 

La verità è che la maggior parte delle persone la pensa come Travaglio, dice “mongoloide” o “handicappato”, e pensa che non sta offendendo nessuno (“è solo un insulto mica ce l’hanno davvero con loro”) e si nasconde dietro frasi di circostanza del tipo “conosco diverse famiglie, ho tanto da imparare da loro”, un po’ come dire “frocio” o “negro” e poi lavarsi la coscienza dicendo che hai tanti amici gay o neri. La maggior parte delle persone pensa che la sindrome di Down sia una malattia e che i nostri figli siano dei poveri sfigati che non hanno nessuna possibilità nella vita, che non pensano, che a scuola giocano a palla o scaldano i banchi, figuriamoci il mondo del lavoro. La gente pensa che noi genitori ci inalberiamo perché siamo provati dal dolore e dalla pena o nella migliore delle ipotesi pensa che sia solo una crociata di radical chic sotto la bandiera del politically correct.

 

Bene statemi a sentire, non voglio farvi la lezione di cosa si dice e cosa non si dice, c’è chi lo ha fatto meglio di meuna volta per tutte voglio spiegarvi perché è così importante e perché ci battiamo tanto per delle semplici parole.

 

I nostri figli sono persone che pensano e che sentono, le persone con sindrome di Down hanno molte difficoltà e noi non lo neghiamo, ma possono studiare, lavorare, amare, alcune vanno a vivere da sole con un’assistenza che nel tempo può essere ridotta al minimo. Mi piacerebbe far sapere a Travaglio che vanno anche a votare e consapevolmente. Sono persone che hanno lottato insieme alle loro famiglie per cambiare il mondo che li circonda e per farsi spazio nella società, una volta andavano in istituto o rimanevano chiusi in casa tutta la vita per vergogna o per ignoranza e poca fiducia nelle loro possibilità. Il mondo è cambiato, si è evoluto, e con lui anche la cultura. Oggi il mondo del lavoro comincia a capire che una persona con sindrome di Down può portare un valore aggiunto in azienda e non è solo un atto di generosità nei confronti di una categoria debole, per quanto in questo non ci sia nulla di male. Un mondo che sa queste cose accoglie in maniera diversa le persone con sindrome di Down. È un fatto culturale prima ancora che sociale. E il linguaggio è l’alfabeto di questa cultura in evoluzione. Se sdoganiamo termini come “mongoloide” facciamo un passo indietro culturale di diversi decenni.

 

Sia chiaro a me non interessa così tanto se parlando di mia figlia dicono “affetta” da sindrome di Down… Penso che sia una questione di forma importante, ma pur sempre forma. Non è corretto, ma io non correggerò mai con pignoleria o irritazione questa imprecisione. Starò attenta a non usarlo io per prima perché è importante e il linguaggio va educato, se io lo uso, anche l’insegnante imparerà a usarlo, l’amico e la nonna che incontro al parco con il nipote, ma non pretendo che tutti siano precisi nella terminologia se non conoscono il contesto. Se capita l’occasione però lo spiego, ma spiego anche perché è importante. Alla gente non piace essere bacchettata, ma se magari spieghiamo quanto è importante diamo un senso alla nostra annotazione. Spieghiamo che ci battiamo tanto per le parole, che ci impegnamo a non lasciarcene sfuggire perché anche la forma diventa importante quando si cerca di sradicare una mentalità. È un fatto culturale considerare la sindrome di Down una malattia, ma ci immaginiamo quanto possa cambiare la realtà guardare una persona con sindrome di Down come una persona semplicemente diversa, come lo siamo tutti, piuttosto che come una persona malata?

 

Invece ho un brivido lungo la spina dorsale ogni volta che sento la parola “mongoloide”. Non si dice “mongoloide” come non si dice “handicappato”, “autistico”, “cerebroleso”, “ritardato” o chissà quale altro vocabolo preso a prestito dal mondo della disabilità per offendere qualcuno. Se la vostra fantasia non ce la fa a trovare un sinonimo per colpire qualcuno durante una conversazione accesa prendete un dizionario e preparatevene qualcuno per la prossima volta, so che non sono più di moda, ma anche una buona app può aiutare. Oppure dategli semplicemente dello “stronzo” come dice MarinaIl problema non è la disabilità quella chiamiamola pure con il suo nome, a me diversamente abile o diversabile o chissà cos’altro hanno sempre fatto irritare, chiamiamo le cose con il proprio nome. Emma ha la sindrome di Down, Emma ha una disabilità, sono parole che si possono usare ci mancherebbe, ma non diciamo a una persona per insultarla sei un mongoloide, sei un handicappato sotto intendendo che non capisce nulla che è un buono a nulla o chissà cos’altro. Per quanto l’abitudine faccia dimenticare il suo significato originario, quello significa. Non si dice perché è offensivo nei confronti della categoria chiamata in causa e perché alimenta una cultura di pregiudizio e di discriminazione. Mi rendo conto che quest’ultima sia la parte più difficile da capire, ma è la più importante. Non la sto facendo lunga per delle semplici parole, la cosa mi sta a cuore perché inquina la nostra cultura senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Ci facciamo l’abitudine e lasciamo correre. Alcuni genitori hanno detto che ci perdiamo in cazzate, e che dobbiamo fare progetti per i nostri figli, ma la verità è che questo è più importante di qualsiasi altro progetto, più dei corsi di autonomia e dell’insegnante di sostegno il primo giorno di scuola. Se anche non avessimo i casini che abbiamo nella scuola oggi ma avessimo un contesto culturale respingente, ci sarebbe forse inclusione? Ci diamo un gran da fare per inserire nel mondo del lavoro i nostri figli, ma se poi il collega crede che sia un buono a nulla che inclusione sarà? Se non abbiamo un terreno fertile dove seminare, non andiamo da nessuna parte. Non è una questione linguistica è sostanza, è cultura, è mentalità che si radica. Se passa il concetto che si può dire “mongoloide” torniamo indietro di trent’anni sul percepito delle persone con disabilità.

 

Sentirlo in televisione crea un alibi. Detto da un giornalista, è un precedente gravissimo. Il responsabile della sanità di un certo partito in questi giorni ha scritto che mongoloide non è un insulto, ma è una malattia, eppure una che fa il suo mestiere lo dovrebbe sapere che la Trisomia 21 è una condizione genetica e che tra le due c’è una differenza. Uno scrittore sostiene che l’insulto è sempre basato sulla ridicolizzazione di un handicap e lo dice con una leggerezza che mi fa rabbrividire. Lo so che associazioni e genitori sono stanchi di ribadire sempre le stesse cose, ma non possiamo liquidare la cosa dicendo che sono ignoranti, che non capiscono e ci rinunciamo perché gli ignoranti hanno un seguito e si moltiplicano come i pidocchi, vanno a votare come noi, i loro figli vanno a scuola con i miei, i loro nipoti sono al parco con i nostri figli. Io non mi stanco io voglio continuare a lottare e per fortuna ci sono ancora molte persone che hanno lottato e che hanno voglia di continuare a farlo.

 

A Travaglio e ai media chiedo di dare spazio in questi giorni importanti per noi alle storie dei ragazzi e a questo aspetto del linguaggio che contribuisce a creare un contesto culturale che è più importante di qualsiasi altra cosa. E a chiunque abbia voglia di fare uno sforzo nel proprio ambiente, se davvero quando dite “mongoloide” non volete offendere le persone con sindrome di Down, chiedo di fermarvi quando vi scappano e scusarvi e di insegnare ai vostri figli a non usare più questi termini, una piccola rivoluzione, lenta ma efficace, giorno dopo giorno sradicherete questa brutta abitudine e renderete il mondo che ci circonda un posto più accogliente per tutti noi.